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"Piccolo Alfabeto delle Riflessioni" di Linda Criminisi

PICCOLO ALFABETO DELLE RIFLESSIONI
di Linda Criminisi


28/06/2014    

Linda Criminisi
Linda Criminisi

"Piccolo Alfabeto delle Riflessioni" di Linda Criminisi

PICCOLO ALFABETO DELLE RIFLESSIONI

di Linda Criminisi

Z come Zorro

Penso che tutti noi conosciamo Zorro, l’eroe mascherato che combatte in nome della povera gente contro i soprusi dei tirannici governatori della sua città, contrapponendo la propria spada - ma soprattutto il proprio coraggio e la propria intelligenza - all’ottusa cattiveria dei prepotenti.
Credo anche che tutti noi, in fasi diverse della nostra vita, abbiamo desiderato uno “Zorro della situazione”, buono e generoso, capace di risolvere, con piglio agile e deciso, i nostri problemi al momento opportuno.
Senza chiederci nulla in cambio ma solo per altruismo e senso della giustizia.
Diversi studiosi hanno cercato di individuare un personaggio storico realmente esistito con le caratteristiche dello spagnolo don Diego De La Vega - con relativa seconda identità mascherata. Ma non ci sono certezze al riguardo.
Zorro, purtroppo, rimane un personaggio della fantasia anche se fortemente “reale” e radicato nel nostro immaginario collettivo - generatore, quest’ultimo, di miti e narrazioni corrispondenti ad altrettanti profondi e atavici desideri e necessità umane.
Dove non arriva la realtà, in pratica, arriva la fantasia.
Quello che non esiste lo immaginiamo e lo creiamo da noi.
In realtà, di eroi attorno a noi ce ne sono tanti, anche se non vanno vestiti con mascherina e cappello nero e non si muovono su un cavallo nero pure lui.
E non potevo non concludere queste mio Piccolo Alfabeto delle Riflessioni senza un omaggio a tutte le donne e a tutti gli uomini onesti e di buona volontà che - facendo semplicemente il proprio dovere - fanno il bene dei singoli e della collettività.
Penso, ad esempio, ai medici e agli infermieri, ai magistrati, ai poliziotti e ai carabinieri, ai sacerdoti, agli insegnanti, agli operatori culturali, ai volontari, alle mamme e ai papà…
A tutti coloro che - con sacrificio e fatica - praticando la legalità, aiutando il prossimo o “semplicemente” amando costruiscono la propria vita ogni giorno, edificano la società, sostengono il mondo.
Come giganti, anonimi e silenziosi.
Ognuno pensi alle persone importanti della propria vita oppure a quelle che ha incontrato quando è stato malato o in difficoltà, a quelle che gli hanno dato una mano quando era nel bisogno.
Poche? Forse. Ma buone. Perché il buono esiste: dobbiamo avere, a nostra volta, la bontà di riconoscerlo ed apprezzarlo.
Andando a scuola, la mattina, mi capitava di incontrare una mamma che, con il sorriso che solo una mamma può avere - lieve e luminoso come un raggio di sole - accompagnava il proprio figlio disabile a scuola. Lo reggeva da sotto le braccia.
E ho immaginato la fatica, l’angoscia, la sofferenza, la frustrazione - che non si vedevano ma che sicuramente, almeno a tratti,  ci saranno - dietro a quel sorriso.
All’improvviso, ecco, ho visto Zorro, senza cavallo, senza spada e senza maschera ma con tanto coraggio e generosità - il coraggio e la generosità che solo gli eroi reali e veri,  fragili e imperfetti, sanno avere.
Un caro saluto e un grazie affettuoso a tutti voi, amici lettori
.

Linda Criminisi

Pubblicato dalla Testata Giornalistica
Grotte.info Quotidiano

su www.grotte.info il 28 giugno 2014.
Per gentile concessione dell'Autrice.
© Riproduzione riservata.
 

 

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21/06/2014    

Linda Criminisi
Linda Criminisi

"Piccolo Alfabeto delle Riflessioni" di Linda Criminisi

PICCOLO ALFABETO DELLE RIFLESSIONI

di Linda Criminisi

V come Violenza (di genere)

Riparto dal concetto di amore inteso come sentimento ampio e contraddittorio, capace di assumere forme diverse fino a trasformarsi nel contrario di se stesso diventando violenza. Di genere. E spesso intrafamiliare. La più pericolosa, quest’ultima, perché la più difficile da individuare e da comprendere.
La violenza di genere è trasversale e non attecchisce, come istintivamente si pensa, soltanto nei ceti sociali più disagiati, più poveri e con meno istruzione.
Essa colpisce nel fisico ma soprattutto nella mente.
Una buona parte di osservatori ed esperti la attribuisce alle situazioni sociali “liquide”, per dirla con Bauman, in cui i ruoli maschili e femminili mutano continuamente, si intersecano e si invertono, sfuggendo a  schemi ben definiti.
E se i ruoli sono meno definiti allora le persone dentro tali ruoli sono meno “controllabili”. Da qui la violenza, il metodo più semplice e sbrigativo  per riprendere il controllo, rimettendo ognuno al “proprio posto”.
Penso che il problema sia qui - nelle categorie  mentali e culturali in cui ingabbiamo persone e situazioni, attaccandoci sopra un’etichetta che è il precipitato di un opaco miscuglio di supposto senso comune, consuetudini, stereotipi, pregiudizi e che ci indica - per ogni individuo - come dovrebbe essere e comportarsi in base appunto alla definizione data a monte.
Tali etichette valgono soprattutto per le donne, sulle quali la violenza purtroppo è stata sempre esercitata. Ultimamente non so se è davvero aumentata o semplicemente se ne parla di più - sotto lo stimolo dei casi di cronaca più efferati e assurdi che rimbalzano con  la violenza di uno schiaffo dagli schermi televisivi, dalle pagine dei quotidiani, dal web.
Ma bisogna parlarne, parlarne tanto. Perché parlare di qualcosa ce la rende più familiare, più “gestibile”.
E abbrevia il passo che porta alla denuncia. Che non è mai facile.
Perché oltre all’angoscia, alla paura che una donna che subisce violenza deve affrontare, c’è anche la vergogna e - cosa ancora più grave - il pesante sospetto, da cui ella viene spesso circondata, che la colpa della violenza subìta sia sua.
Violenza subìta uguale violenza provocata, equazione subdola e pericolosa di cui anche molte donne sono convinte e a cui spesso finisce per credere pure la stessa vittima.
Ed ecco la prova del nove che dimostra come la violenza di genere sia in primis un problema culturale, di un certo tipo di mentalità che si arroga appunto il diritto di stabilire quali devono essere i ruoli, i comportamenti e le prerogative di uomini e donne.
Su tali schemi di relazione uomo-donna, distorti e devianti, hanno un peso non irrilevante anche le “infiltrazioni sessiste” provenienti da un certo tipo di trasmissioni televisive - il cui “intrattenimento” è costruito sull’esibizione dei corpi, più o meno svestiti, delle donne - e da messaggi pubblicitari, nemmeno tanto subliminali, del medesimo tenore; dalle quotidiane discriminazioni di riconoscimenti professionali ed economici nei luoghi di lavoro; persino dal linguaggio, sempre meno  decoroso e “consono” usato anche in ambiti istituzionali: un esempio recente per tutti è quello della politica.
Di fronte a modelli di relazione uomo/donna - in cui la differenza diventa disuguaglianza nonché veicolo di proposte identitarie e di comportamenti tali da  precludere ad un sereno e consapevole rispetto di genere - occorre agire con determinazione, usando tutte le risorse a nostra disposizione.
Devono agire le famiglie e le istituzioni - prima fra tutte la scuola.
In famiglia, educando  figli maschi e figlie femmine alla parità nei diritti e nei doveri (sembra assurdo ma soprattutto nei nuclei familiari più tradizionalisti questo diverso “approccio” nei confronti dei figli esiste ancora).
Nelle scuole, formando gli studenti alla comprensione e al rispetto della  identità/diversità di ciascun individuo, step ineludibile alla costruzione di rapporti realmente paritari tra persone di sesso diverso.
Perché essere uomini ed essere donne è questione non solo biologica ma di chiara consapevolezza culturale che può maturare solo in un ambiente educativo e sociale attento, aperto e costituito da uomini e donne liberi e padroni dei propri pensieri.

Linda Criminisi

Pubblicato dalla Testata Giornalistica
Grotte.info Quotidiano

su www.grotte.info il 21 giugno 2014.
Per gentile concessione dell'Autrice.
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14/06/2014    

Linda Criminisi
Linda Criminisi

"Piccolo Alfabeto delle Riflessioni" di Linda Criminisi

PICCOLO ALFABETO DELLE RIFLESSIONI

di Linda Criminisi

U come Utile

Nella vita di tutti i giorni, si sa, bisogna essere pratici. Organizzare, gestire, decidere lavorare, guadagnare, risparmiare… Sono questi i verbi che coniughiamo con maggiore frequenza nello scorrere delle nostre estenuanti giornate.
Tutto ciò che facciamo deve avere una precisa e pratica utilità, finalizzata, possibilmente, a “vivere bene” - cioè comodamente e senza troppo stress.
Utile diventa sinonimo di concreto e funzionale. Non c’è posto o tempo per ciò che non è tale. Indulgere alla riflessione o alle suggestioni della bellezza, per esempio, è considerata roba da intellettuali perdigiorno che evidentemente non hanno cose più importanti da fare e sicuramente non hanno il senso della realtà.
Il senso della realtà, invece - complesso e multiforme - si annida soprattutto tra le pieghe di ciò che “a lume di naso” sembra inutile. Un po’ come la nostra attività onirica - i sogni che facciamo la notte mentre dormiamo - apparentemente inutile e “insensata” ma indispensabile al perfetto funzionamento del nostro cervello e della nostra psiche.
Chissà perché ma è soprattutto la bellezza (tanto cantata dai poeti e discussa dai filosofi) a venire considerata poco utile, almeno nel diffuso sentimento popolare con cui ci si scontra ogni giorno.
Forse perché la bellezza è effimera. Forse perché è sfuggente. Forse perché la si guarda dall’esterno e ci si ferma lì, all’involucro, considerandola forma e non sostanza.
Di bellezza, invece, si può e si deve sostanziare la nostra vita.
Formare al bello le giovani generazioni diventa una fondamentale forma di educazione sentimentale. Al bello dell’arte, della natura, dei buoni sentimenti, cosicché esse diventino capaci di individuare la bellezza in tutte le sue forme e a loro volta ricrearla nel proprio contesto lavorativo, sociale, affettivo.
Poi ci sono le piccole azioni quotidiane. Riempire qualche vaso di fiori freschi e collocarli in un posto ben visibile della nostra casa. Permettersi ogni tanto il lusso di un bel vestito e guardarselo addosso. Ascoltare buona musica, impregrandone le nostre attività quotidiane. Andare al cinema per un buon film, a vedere una mostra e naturalmente leggere un buon libro, magari di  poesia - che all’inizio potrebbe avere un sapore “strano” al nostro palato mentale ma che ci basterà continuare ad assaggiare per coglierne le originali ed insolite raffinatezze “gustative” ed “olfattive”. E poi c’è anche il buon cibo, da godersi ogni tanto anche nella sua bellezza, su una tavola curata e piacevole da vedere. Per non parlare di una passeggiata al mare, d’inverno, ascoltandone i rumori inframezzati di silenzio… Piccole concessioni, fatte di ritagli di tempo e di denaro, da regalarsi di tanto in tanto, con generosità.
Dostoevskij ne L’idiota diceva che la bellezza salverà il mondo. Io ritengo che un po’ di bellezza ogni giorno possa salvare la vita delle nostre anime dalla monotonia, dall’abbrutimento sentimentale, dai tanti affanni inutili che alla lunga diventano disperazione, stupidità, cattiveria insensata e aberrante.
E di cui ci capita, nei casi estremi, di leggere sui giornali o di sentire in televisione - etichettata come cronaca nera - chiedendocene “inutilmente” il perché.

Linda Criminisi

Pubblicato dalla Testata Giornalistica
Grotte.info Quotidiano

su www.grotte.info il 14 giugno 2014.
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07/06/2014    

Linda Criminisi
Linda Criminisi

"Piccolo Alfabeto delle Riflessioni" di Linda Criminisi

PICCOLO ALFABETO DELLE RIFLESSIONI

di Linda Criminisi

T come Tempo

Mi è già capitato precedentemente di accennare al tempo. Tempo, si diceva, che è la risorsa più preziosa che abbiamo ma che, paradossalmente, sprechiamo con leggerezza e superficialità. Forse perché non ha consistenza materiale, come ha invece il denaro o forse perché ne siamo dotati - gratuitamente e senza alcuno sforzo per meritarcelo - in abbondanza quando veniamo al mondo. Un’abbondanza che ci sembra infinita e della cui finitezza, invece, ci accorgiamo con consapevole saggezza o con ansia crescente (dipende dai casi e dalla nostra indole) a mano a mano che andiamo avanti con gli anni.
Ancora una volta, come buoni maestri, sono i filosofi e gli scrittori ad avvertirci e ad indicarci la strada. Già Seneca, sollecitato dalle lamentele degli uomini sulla brevità della vita, ammoniva sul fatto che in realtà la nostra vita non è affatto breve - e il tempo a nostra disposizione non è poco - ma siamo noi uomini a dissiparlo stoltamente in attività insulse e inutili.
Ancora, la fuga silenziosa ed inesorabile del tempo - legata ad una sorta di inettitudine esistenziale che impedisce di accorgersene e di saper cogliere e vivere pienamente le occasioni che la vita offre - è descritto magistralmente nel Deserto dei Tartari di Dino Buzzati, a mio avviso uno dei più bei romanzi della letteratura italiana del ‘900. Come in tutte le grandi opere sono tanti i temi presenti, ma, almeno per me, il tempo che se ne va portandosi via la vita e il suo senso è quello che più mi è rimasto impresso, insieme all’inquietudine trasmessami dalla figura del protagonista Giovanni Drogo, tenente alla Fortezza Bastiani.
In effetti, sono tante le maniere in cui possiamo sprecare - o vivere male - il nostro tempo e quindi la nostra vita, che al tempo è indissolubilmente intrecciata.
Per eccesso di immobilità esistenziale, come Drogo appunto, quando abbiamo paura delle opportunità di cambiamento che, al contrario, potrebbero portarci ad un uso più pieno e sensato delle nostre risorse temporali e di vita.
O, al contrario, per eccesso di frenesia, che ci impedisce di valutare con intelligente serenità a quali - dei  piccoli e grandi impegni della vita quotidiana - dedicare tempo e a quali no, perché perfettamente inutili o facilmente delegabili.
Senza contare quelle abitudini e quelle attività - che ci fanno perdere tempo - imposteci da convenzioni sociali subite passivamente.
La misura del tempo è soggettiva, interiore ma è anche sociale. Tipico della nostra epoca “moderna” è anche l’
obbligo” di essere sempre indaffarati perché ci fa sentire persone impegnate, attive, integrate e al passo appunto con i  tempi.
Non di rado concepiamo il tempo come un contenitore che dobbiamo assolutamente riempire facendo “qualcosa” - una cosa qualsiasi - come se godersi il tempo che passa, “sentendolo”, guardando fuori e dentro di sé non fosse già “fare qualcosa” - impiegando bene il tempo.
Viene da pensare ancora agli antichi, alla scholé dei greci e all’otium dei latini. Concetti che verosimilmente bisogna “aggiornare”, adeguandoli alle esigenze dei nostri tempi, ricordandoci però di non violentare mai il nostro tempo esistenziale, con i suoi ritmi e il suo senso - anche “di marcia”.
Tra i tanti post-it con su scritti i nostri impegni quotidiani e che attacchiamo sulle ante dei pensili della cucina o dei mobili del nostro studio, forse dovremmo anche scriverne uno, in autorevole e un po’ minaccioso latino: Tempus fugit.
Magari ci sarà più utile di tutti gli altri
.

Linda Criminisi

Pubblicato dalla Testata Giornalistica
Grotte.info Quotidiano

su www.grotte.info il 7 giugno 2014.
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31/05/2014    

Linda Criminisi
Linda Criminisi

"Piccolo Alfabeto delle Riflessioni" di Linda Criminisi

PICCOLO ALFABETO DELLE RIFLESSIONI

di Linda Criminisi

S come Scuola

Italo Calvino, scrittore ed intellettuale italiano scomparso nel 1985, denunciava che “un paese che distrugge la sua scuola non lo fa solo perché mancano le  risorse o i costi sono eccessivi. Lo fa perché è governato da coloro che dalla diffusione del sapere hanno solo da perdere”.
Affermazione che la dice lunga su come è messa la scuola - non tanto negli ultimi tempi di crisi in cui si sta tutti male - ma già da molto, molto tempo.
Affrontare i problemi della scuola è complesso, risolverli lo è ancora di più. Anche se le soluzioni, in realtà, sono semplici e sotto gli occhi di tutti. Ma tra denunce e proposte di intellettuali e scrittori da una parte (per la maggior parte insegnanti anch’essi/e come P. Mastrocola, C. Argentina, M. Spicola) e le lamentele e le proteste - poco efficaci in realtà - degli insegnanti dall’altra, la scuola, come istituzione formativa, come agenzia educativa continua a svuotarsi di forza e di senso.
Gli studenti credono poco nella scuola. La trovano poco interessante e motivante, stantìa, sganciata dalla realtà - dalla loro realtà almeno - che invece ritrovano completamente nel web per esempio, con i social media in testa.
Di conseguenza essi studiano poco, male e comunque non come dovrebbero.
Spesso la loro indifferenza nei confronti della scuola assume i tratti dell’aperta avversione per gli insegnanti. Insegnanti che appaiono ai loro occhi come gli NNU - i Nemici Numero Uno - che stanno dall’altra parte della barricata.
Ma solo apparentemente, perché in realtà gli insegnanti - demotivati, frustrati, impotenti - condividono molti degli stati d’animo  dei loro studenti.
Ma sono e rimangono degli educatori, con un impegno professionale ed etico che hanno scelto di portare avanti. E così vanno avanti.
Maggiori risorse cambierebbero tutto.
Risorse per insegnanti più aggiornati soprattutto nell’uso delle tecnologie, le quali accorcerebbero di molto il divario che inevitabilmente separa generazioni tanto distanti come forse non sono mai state. Perché se i tempi corrono in fretta, non fanno altrettanto le immissioni in ruolo e i turnover pensionistici nella scuola, per cui gli insegnanti sono sempre più anziani e i giovani aspiranti tali sprecano tempo, denaro ed energie per forgiarsi gli attrezzi di un mestiere che rischiano di rivelarsi inutili, perché quando finalmente quel mestiere riusciranno ad esercitarlo verosimilmente quegli attrezzi saranno superati.
Risorse per insegnanti meglio retribuiti, perché una congrua retribuzione non solo infonde maggiore senso di giustizia e motivazione ma contribuisce anche a rinsaldare prestigio sociale e autorevolezza culturale di una classe di lavoratori dal profilo professionale sempre più sbiadito e dimesso - quasi respinta in un angolo da una società fortemente competitiva e che, apparentemente, ha eletto il denaro quale unità di misura di tutto, persone comprese.
Risorse per edifici e aule che possano definirsi tali, più sicuri, funzionali, moderni, dotati delle strumentazioni e degli arredi necessari perché - non bisogna dimenticarlo - anche lo spazio-scuola è strumento formativo e didattico.
E l’elenco potrebbe continuare.
Naturalmente, l’erogazione di maggiori risorse dipende dalla volontà, dall’onestà intellettuale e da un po’ di buon senso della classe politica. Che mancano.
Ed eccoci di nuovo all’affermazione di Calvino, fatta più di quarant’anni fa.
E qui la questione si fa complicata. Meglio riparlarne un’altra volta.

Linda Criminisi

Pubblicato dalla Testata Giornalistica
Grotte.info Quotidiano

su www.grotte.info il 31 maggio 2014.
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24/05/2014    

Linda Criminisi
Linda Criminisi

"Piccolo Alfabeto delle Riflessioni" di Linda Criminisi

PICCOLO ALFABETO DELLE RIFLESSIONI

di Linda Criminisi

R come Razzismo

Credo che nessuno di noi dichiarerebbe di essere razzista. Però credo anche che a nessuno, o quasi, di noi non sia capitato di cedere, nel proprio intimo, a impulsi razzisti. Magari si sarà trattato di “piccole” omissioni: non ci siamo fidati, non abbiamo dato una mano, non abbiamo voluto conoscere l’altro lasciando cadere l’occasione.
L’impulso razzista ha radici psicologiche molto profonde e lontane, una sorta di “istinto di sopravvivenza” legato alla paura dell’“altro da sé”, del diverso, che balza fuori ogniqualvolta sentiamo che esso possa invadere il nostro perimetro esistenziale, minacciandolo.
Tanto più  rigido, radicato (e quindi fragile) è il nostro senso di identità tanto più forte è tale paura che si esprime, appunto, in istinto razzista. In effetti è un impulso - se ci riflettiamo - “umanamente comprensibile” perché l’incontro con l’altro, con il diverso è effettivamente la scintilla che innesca il cambiamento che poi diventa, nella quasi totalità dei casi, evoluzione, progresso.
E così, per non perdere il controllo rassicurante di ciò che è e che è sempre stato così e per acquietare, al contempo, l’ansia del nuovo, difendiamo - con le unghie e i denti, visceralmente, irrazionalmente - il nostro territorio. Territorio interiore, fondamentalmente, ma che estendiamo all’esterno di noi, dandogli la forma, socialmente riconosciuta e condivisa, della paura: paura che ci portino via il lavoro o che derubino le nostre case o che possano molestare i nostri figli. E via così.
Se però possiamo trovare “spiegazioni” dell’impulso razzista che ce lo potrebbe fare apparire “umanamente comprensibile” non è comprensibile né giustificabile il comportamento razzista consapevole, ragionato, ideologico di tanti di noi.
Suona strana e dolorosa la contraddizione tra razzismo e globalizzazione, per esempio. O tra xenofobia ed educazione all’interculturalità, di cui tanto si parla sui mezzi di comunicazione e nelle scuole.
Se gli spostamenti umani, i flussi migratori - necessari e ineliminabili - ci sono sempre stati, è indubbio che adesso la mobilità sta assumendo forme diverse. Addirittura si è “smaterializzata”.
Essa è a portata di tutti - basta un click - perché i nuovi mezzi tecnologici, il web e tutte le sue risorse, permettono una circolazione virtuale ma potente di contatti, di nuove possibilità di incontro e di dialogo, di idee, di punti di vista e di progettualità.
A volte, però, ho l’impressione che dalla globalizzazione e dall’affermazione di modalità virtuali di movimento e contatto sfruttiamo solo ciò che materialmente e utilitaristicamente ci conviene, come rozzi e rapaci conquistadores incapaci di riflessione e privi del minimo sindacale di sensibilità.
Al giorno d’oggi, si sa, lo studio e la conoscenza delle lingue straniere è un obbligo per le giovani generazioni a qualunque tipo di occupazione professionale esse aspirino. Ma studiare una lingua significa comprendere e interiorizzare anche la cultura del popolo che parla quella lingua. Cultura che non è semplicemente un insieme di usi e tradizioni  più o meno curiose o folcloristiche.
Aprirsi allo studio di una lingua e della sua cultura significa andare oltre il proprio orizzonte, capire che ci sono mondi e modi diversi nell’apparenza ma uguali nella sostanza.
Significa non aver paura di entrare in quel mondo e di confrontarsi con esso in modo sereno, aperto, critico e razionale, con un senso di identità solido ma flessibile e curioso.
Le differenze culturali esistono, non possiamo negarlo. E il problema dell’integrazione, soprattutto in contesti sociali complessi come le grandi aree urbane, è un problema reale.
Ma la paura dello straniero si supera solo conoscendo lo straniero. Che non vuol dire tollerarlo (si tollera un mal di pancia) e nemmeno amarlo follemente, condividendone completamente stile di vita e valori in nome di un relativismo culturale che - quando non è critico e autentico - rischia di degenerare in una sorta di pregiudizio al contrario, in disorientamento e perdita del senso di sé, della propria identità e cultura.
Conoscere lo straniero significa semplicemente entrare in contatto con lui, cercare di capirlo aprendogli  una porta.
Dietro la porta potrebbe esserci il nostro migliore amico o l’uomo o la donna della nostra vita. Oppure un affettuoso e socievole vicino di casa. O un cordiale e disponibile collega di lavoro.
Oppure, verosimilmente, potremmo trovare una persona come un’altra, con i suoi pregi e i suoi difetti, con un brutto o un buon carattere, rumoroso o discreto, socievole o scontroso, pulito o trasandato. E possibilmente con gusti diversi in fatto di cucina, di abbigliamento, di credo religioso.
Una persona qualsiasi a cui dire buongiorno e buonasera quando la incontriamo senza entrare automaticamente in stato di allerta o aspettarci chissà quale pericolo o, peggio ancora, palesargli disprezzo o coprirlo d’insulti.
Essere stranieri non è una caratteristica fisica o esistenziale permanente ma uno stato di vita temporaneo, in cui tutti potremmo trovarci.
Aiutare lo straniero, se questi è in difficoltà come i tanti migranti che arrivano ormai anche dietro la porta delle nostre case, significa semplicemente sostenere una persona che - in quel momento - è sola, senza mezzi, disorientata perché non è nel suo mondo.
Nel loro mondo saremmo anche noi stranieri, saremmo anche noi così.
In epoca di globalizzazione, di progresso tecnologico, di istruzione diffusa e di informazione continua e pervasiva forse il vecchio, saggio proverbio “tutto il mondo è paese” può esserci ancora di grande
aiuto.

Linda Criminisi

Pubblicato dalla Testata Giornalistica
Grotte.info Quotidiano

su www.grotte.info il 24 maggio 2014.
Per gentile concessione dell'Autrice.
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17/05/2014    

Linda Criminisi
Linda Criminisi

"Piccolo Alfabeto delle Riflessioni" di Linda Criminisi

PICCOLO ALFABETO DELLE RIFLESSIONI

di Linda Criminisi

Q come Quattro (Gatti)

Da sempre - e quasi in tutte le situazioni - essere in minoranza significa non avere vita facile.
Far parte dei classici quattro gatti, o ritrovarsi ad essere addirittura felino unico, non è un’esperienza rassicurante e appunto non da molti ambita.
Pensare - e agire - controcorrente, sfidando la logica comune dei più, richiede coraggio, fiducia, forza interiore, stima di sé, possibilmente temperati però dall’intelligenza - argine sicuro e solido contro ogni forma di arroganza e fanatismo integralista.
Al contrario, conformarsi al pensiero e alle azioni della maggioranza è camminare su un solco già tracciato, per di più con un paio di vecchie pantofole rese confortevoli da un uso prolungato. E’ comodo e sicuro, non genera ansia ma l’opposta sensazione di essere nel giusto, sempre.
Il conformismo, l’appartenenza supina e acritica non importa se ad un movimento politico, ad un credo religioso, ad una comunità etnica, sociale, professionale, familiare è una “coperta di Linus” che ci tiene al riparo principalmente da noi stessi e dai dubbi che, come insetti molesti, ci assalgono ogniqualvolta ci fermiamo a pensare con la nostra testa, deviando dalla strada maestra per infilarci in qualche vicolo periferico e poco illuminato.
Desiderare consenso - o semplicemente cercare conferme ai nostri pensieri e alle nostre azioni - è un’esigenza così connaturata ad ognuno di noi da essere avvertita con l’intensità di un istinto primario di sopravvivenza psichica e sociale. L’appartenenza ci dà un’identità solida e certa, un perimetro sociale ben delimitato nel quale agire con disinvoltura e agio ma che rischia di mutilare fortemente la nostra libertà di pensiero e di azione.
In fondo, coniugare libertà individuale e “vincoli sociali” - intesi in senso ampio - è il nodo gordiano che affligge l’umanità pensante da sempre e certo non sono io, in questa sede, capace di dare una risposta risolutoria e definitiva.
A mio avviso, però, vivere secondo le regole oppure agire una fede religiosa, un credo politico o qualsiasi altra “forma di appartenenza” declinandoli in modo creativo e personale è l’unica strada per non lasciarsi fagocitare dai sistemi ideologici nei quali, come animali sociali appunto, ci ritroviamo a vivere.
Per non tradire e smarrire se stessi. Per non perdere la propria libertà.
Ciascuno a suo modo, ciascuno come può.
E’ quello che sono riusciti a fare le grandi donne e i grandi uomini che hanno cambiato la storia e il mondo partendo appunto dal cambiare se stessi, ciascuno nel proprio ambito.
Andando a ruota libera e citando secondo una personale associazione di idee, penso a San Francesco d’Assisi, al Mahatma Gandhi, a Madre Teresa di Calcutta, a Martin Luther King, a Nelson Mandela solo per citare alcune gigantesche figure - sebbene diverse tra loro - universalmente riconosciute.
Ma potrei aggiungere, a vari livelli, i pensatori e i filosofi, gli scienziati, i religiosi, gli scrittori e i poeti, gli educatori, i medici - i rivoluzionari di ogni tipo e di ogni tempo - che senza distruggere ma semplicemente modificando e ampliando i propri confini interiori, vedendo le cose da una prospettiva nuova, hanno saputo ri-creare una società diversa, cambiando la vita dei molti con la forza dell’intelligenza e della libertà di pensiero.
Cambiare il mondo non è da tutti, non è nemmeno da molti. Forse solo quattro gatti ci credono. Ma crederci è già qualcosa, un piccolo passo “felino” da cui cominciare
.

Linda Criminisi

Pubblicato dalla Testata Giornalistica
Grotte.info Quotidiano

su www.grotte.info il 17 maggio 2014.
Per gentile concessione dell'Autrice.
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10/05/2014    

Linda Criminisi
Linda Criminisi

"Piccolo Alfabeto delle Riflessioni" di Linda Criminisi

PICCOLO ALFABETO DELLE RIFLESSIONI

di Linda Criminisi

P come Paradiso

La buona letteratura - quella che ci restituisce la complessità del reale inteso nella sua accezione più ampia - non prevede, solitamente, il lieto fine.
Il lieto fine appartiene alla letteratura di evasione, ai romanzi rosa e ai gialli (a quelli, almeno, in cui alla fine si scopre con certezza il colpevole).
Con un lieto fine si conclude anche la maggior parte dei libri per ragazzi.
Insomma, il lieto fine sembrerebbe soccorrere le anime “semplici” o poco “adulte” - bisognose, in quanto tali, di essere blandite e consolate - oppure le anime fragili e tormentate, quelle che avvertono la necessità di dare ordine e senso al caos esistenziale che le circonda. Perché, indubbiamente, la vita può apparirci spesso contraddittoria, priva di senso e profondamente ingiusta e dolorosa.
In fondo, anche il Paradiso potrebbe essere considerato una sorta di lieto fine della vita, l’unico caso (o quasi) in cui - secondo il “metro” degli uomini - giustizia umana e giustizia Divina collimano perfettamente: i buoni sono ricompensati e i cattivi puniti, secondo una logica lineare ed armoniosa.
Per chi ha la fortuna di una avere una fede solida, il Paradiso è una gran bella certezza; per chi, invece, ha una fede traballante, tarlata da dubbi e insidiata da continue domande, il Paradiso costituisce, comunque, una bella utopia che, se si rivelasse vera, restituirebbe tanta serenità e fiducia ai nostri giorni.
Nei momenti di tormento interiore è ancora più forte la tentazione di crearci una fede su misura. A me, per esempio, in momenti così, piace immaginare il paradiso come la realizzazione di un desiderio, ardente e profondo, che ci ha accompagnato - inappagato - per tutta la vita, malgrado i nostri strenui e continui sforzi di portarlo a compimento.
Per esempio, per chi ha sofferto a causa della malattia il paradiso sarà un corpo sano e efficiente, per sempre. O per chi ha sofferto di solitudine, il paradiso sarà una affettuosa famiglia arricchita da una cerchia di amici sinceri e solidali. E così via.
Il paradiso diventerebbe così un atto di giustizia, una sorta di ricompensa o, se si vuole, un “risarcimento danni”.
Ritengo che tutti - o quasi - gli esseri pensanti abbiano o abbiano avuto momenti di fede zoppicante e incerta, che va e viene a tratti: anche personalità dalla elevata e solida statura spirituale, persone di autentica e indiscutibile fede come, ad esempio, Madre Teresa di Calcutta - secondo quanto rivelano le sue più recenti biografie - attraversava momenti di profonda crisi esistenziale e di fede.
La fede, per chi la sente - o la desidera - è un cammino che va parallelo a quello della vita. Io credo poco alle folgorazioni sulla via di Damasco, penso siano rare e comunque, il più delle volte, destinate a sparire con la stessa virulenza e rapidità con cui sono comparse.
Credo molto, invece, nella forza dell’impegno, del lavorare indefessamente su se stessi, sulla propria interiorità.
Sforzarsi di diventare persone migliori, un po’ ogni giorno, penso sia una buona approssimazione di paradiso sulla terra e sicuramente un ottimo presupposto per guadagnarci un posto nel Paradiso di Dio
.

Linda Criminisi

Pubblicato dalla Testata Giornalistica
Grotte.info Quotidiano

su www.grotte.info il 10 maggio 2014.
Per gentile concessione dell'Autrice.
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03/05/2014    

Linda Criminisi
Linda Criminisi

"Piccolo Alfabeto delle Riflessioni" di Linda Criminisi

PICCOLO ALFABETO DELLE RIFLESSIONI

di Linda Criminisi

O come Outing

Outing (la o si pronuncia però come se fosse una a italiana) è un anglicismo - una parola inglese importata nella nostra lingua - derivato dall’avverbio out, fuori e dal relativo verbo to out che significa appunto esternare, svelare, rivelare.
Per outing praticamente si intende una pubblica confessione, libera e non estorta, di cui si rendono protagonisti personaggi noti quando hanno un “sassolino” di cui liberarsi.
Inizialmente outing aveva un significato più circoscritto e specifico di pubblica rivelazione della propria omosessualità ma ultimamente ha assunto una denotazione più ampia di esternazione tout court.
Non so se i personaggi famosi siano sempre sinceri o, al contrario, facciano outing solo per ottenere ulteriore visibilità mediatica; di certo, però, l’outing costituisce una liberazione da un peso che impedisce di vivere apertamente e serenamente una data situazione.
A volte mi chiedo chissà quanti di noi, se potessero, farebbero outing. E chissà quanti sassi, di varie fogge e dimensioni, verrebbero fuori dalle nostre “scarpe” apparentemente eleganti e comode.
Forse colpe e rimorsi o, più verosimilmente, rimpianti, passioni soffocate, desideri mai realizzati. Oppure situazioni sgradevoli, di compromesso, che siamo costretti a sopportare. Perché buona parte della vita sociale adulta, si sa, è una ragnatela delicata e precaria su cui occorre muoversi con cautela  e spesso con astuzia: ogni passo falso - una frase o un gesto “inconsulto” - potrebbe costarci caro.
Non penso, tuttavia, che qualcuno utilizzerebbe questi “sassi da outing” per scagliarli contro il proprio prossimo perché ognuno di noi, ritengo, potrebbe avere dentro di sé  il proprio sasso (o più di uno).
Il numero o la dimensione di questi sassi, così come l’intensità del nostro ipotetico desiderio di fare outing, sono legati alla nostra capacità di essere noi stessi. Che, ne sono convinta, è tra le cose più difficili da realizzare. Soli in pochi ci riescono veramente.
Più sei te stesso e meno sassi accumuli, meno sei te stesso e più sassi accumuli. Sembra il meccanismo di un gioco ma non lo è.
La difficoltà di essere se stessi si lega ad un’altra irriducibile condizione esistenziale: la solitudine degli esseri umani. In tutti i modi cerchiamo di buttare giù le pareti che  inesorabilmente ci separano gli uni dagli altri: anche facendo outing. Perché quando ci liberiamo - attraverso la parola che si fa narrazione - del sasso di emozioni più o meno dolorose che abbiamo dentro di noi, si ha l’impressione che esso diventi più leggero e sostenibile, perché abbiamo cercato di ripartirne il peso in parti uguali tra coloro ai quali ci siamo confidati.
Ma è una sensazione illusoria. Dagli altri possiamo ottenere, nella migliore delle ipotesi, comprensione e sostegno ma il disagio, il dolore rimane nostro.
Solo noi possiamo alleggerirlo.
L’outing sociale, allora, si rivela efficace solo quando è preceduto da un outing interiore, quando cioè ci siamo precedentemente confessati a noi stessi e ci siamo  amorevolmente assolti da noi. Il resto è solo convenzione - debole e inconsistente  quanto una luce riflessa.

Outing
è forse solo una parola straniera e moderna per indicare esigenze e disagi antichi ed universali. Benvenute, pertanto, anche alle parole straniere - spesso tanto vituperate - se possono aiutarci a metterci “fuori dal cerchio”, per vedere con occhi nuovi e più consapevoli qualcosa che c’è stato da sempre.

Linda Criminisi

Pubblicato dalla Testata Giornalistica
Grotte.info Quotidiano

su www.grotte.info il 3 maggio 2014.
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26/04/2014    

Linda Criminisi
Linda Criminisi

"Piccolo Alfabeto delle Riflessioni" di Linda Criminisi

PICCOLO ALFABETO DELLE RIFLESSIONI

di Linda Criminisi

N come Nomi

In passato il mio osservatorio era il registro scolastico; ora le situazioni e i luoghi nei quali mi conduce il mio recente status di mamma. Il fenomeno osservato è l’antroponomastica o - più semplicemente - i nomi propri di persona.
Che ci dicono tanto su come cambia la società e si evolvono i tempi.
Quando andavo a scuola io, avevamo, nella quasi totalità dei casi, nomi trasmessi dai nonni, o di santi a cui si era particolarmente devoti in famiglia oppure, più raramente, appartenuti a parenti defunti, perlopiù scomparsi prematuramente. Erano comuni le lunghe sfilze di nomi (tre o quattro) inizianti appunto dal nome “proposto” (leggi imposto) dai nonni e concluse dal “nome a piacere”. Che poi diventava il vero nome usato da tutti, scelto da madri disperate con un gesto estremo di rivolta camuffata.
Era una consuetudine - quella dei nomi imposti in famiglia - a cui in pochi si ribellavano: sia per evitare dissapori inter-generazionali, sia perché, in fondo, interiorizzata nell’immaginario sociale condiviso come cosa giusta e normale.
Come i matrimoni combinati, insomma.
Ma il tempo passa e i costumi si evolvono: l’azione di diverse spinte modernizzatrici, tra cui, non trascurabile, quella proveniente dai media (con l’esplosione delle tv private, pullulanti di soap americane e telenovele brasiliane) hanno contribuito a far sì che, orientativamente a partire dalla metà degli anni ‘80, nuovi nomi, nostrani ma soprattutto esotici, hanno finito per scalzare i vecchi nomi dei nonni.
Ciò è valso soprattutto per le femmine - meno legate al connubio cognome-nome da tramandare come eredità ideale dei nonni maschi capifamiglia - e per i figli maschi “cadetti” che, in un qualche modo, hanno sempre avuto un trattamento diverso rispetto ai maschi primogeniti.
Ma ogni rivoluzione, si sa, ha il suo momento estremo di terrore: è successo anche per i nomi, alcuni dei quali, presi di peso da telefilm stranieri e sicilianizzati nella pronuncia e nella grafia da genitori “inconsapevoli”, hanno creato dei veri e propri “mostri antroponimici”: Triscia, Sciaron, Chevin, Daiana (al posto di Trisha, Sharon, Kevin, Diana), solo per citare quelli che hanno maggiormente impressionato la mia memoria di insegnante.
Delle conseguenze psicologiche sugli innocenti pargoli a cui tali nomi sono stati appioppati, ancora nulla si sa di certo.
Di certo, però, c’è stata un’inversione di tendenza, che ho potuto ricavare dalle mie osservazioni empiriche e random negli ultimissimi anni: un ritorno ai tradizionali nomi dei nonni, sia per i maschi che per le femmine, i quali esibiscono con disinvoltura  nomi solidi e rassicuranti come Pietro, Anna, Antonino, Maria. Senza secondi nomi o diminutivi.
Ma adesso - ed è questa la vera rivoluzione - scelti liberamente dai genitori, senza sottomissioni ad un malinteso “rispetto” per i genitori (un termine - rispetto - che in questo contesto mi piace poco, emanando ai miei sensi un odor di società mafiosa: meglio sostituirlo con affetto o devozione filiale).
Cosa dire di più: è il sano alternarsi dei corsi e ricorsi della storia, anche di quella - apparentemente meno importante - fatta dagli uomini e dalle donne nella scelta dei nomi da dare ai propri figli
.

Linda Criminisi

Pubblicato dalla Testata Giornalistica
Grotte.info Quotidiano

su www.grotte.info il 26 aprile 2014.
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19/04/2014    

Linda Criminisi
Linda Criminisi

"Piccolo Alfabeto delle Riflessioni" di Linda Criminisi

PICCOLO ALFABETO DELLE RIFLESSIONI

di Linda Criminisi

M come Maternità

Affermare che la maternità rappresenti un momento importantissimo nella vita di una donna è talmente ovvio da suonare quasi banale.
Ma la maternità non è ovvia per nulla, per tante ragioni. Innanzitutto perché, come ben si sa, non è scontata: potrebbe anche non realizzarsi, malgrado il desiderio e i tentativi portati avanti da una donna (presumibilmente in coppia). La maternità, inoltre, potrebbe non essere realmente desiderata e accettata da una donna, come in parecchi casi di disagio psichico o sociale.
Ma potrebbe pure darsi il caso che una donna non voglia essere madre, pur non avendo alcun problema fisico, psicologico, economico o di “incompatibilità lavorativa” (altrimenti detta carriera): semplicemente ella (anche se è in coppia) può decidere di non esserlo, così come sceglie di esercitare un mestiere rispetto ad un altro o di vivere all’estero invece che nel proprio paese d’origine. Ma mentre le ultime due scelte, che ho citato come esempi, non suscitano particolari reazioni, nel caso di una maternità mai cercata perché non desiderata il pregiudizio è grande.
Semplicemente non se ne comprende il perché. Ma si vuole a tutti i costi saperlo.
Possibilmente una ragione precisa non c’è così come potrebbero essercene tante ma tutte, penso, si legano alla maniera di essere di una persona, alla sua indole, alla sua interiorità. Che nulla ha a che fare con la sua identità biologica e sociale di donna che è e rimane tale, con o senza figli.
Certo, le prescrizioni della chiesa cattolica che concepisce la ragione d’essere di un matrimonio nella procreazione e, ancor più, la forza normativa di modelli culturali vecchi quanto il mondo hanno contribuito a far sì che si consideri naturale e scontata l’equazione donna (soprattutto in coppia, sposata o no) uguale madre.
In realtà, secondo recenti ricerche portate avanti da gruppi di psicologi e sociologi della famiglia in Inghilterra e negli USA, pare che il numero delle coppie childfree (cioè libere volontariamente da figli, e diverse da quelle childless che non hanno potuto avere figli) è in aumento. O forse ci sono sempre state, solo che ora si ha il coraggio di ammetterlo e tali ammissioni, grazie all’azione di risonanza dei media, arrivano facilmente alle orecchie di  tutti noi.
Tra gli intervistati un buon numero ha dichiarato che senza figli si preserva la felicità di coppia. Potrebbe essere vero oppure no, dipende come sempre dai punti di vista, personali e perciò da rispettare.
A noi (intendendo con noi i genitori felici e appagati) basti solo prendere atto che la maternità desiderata e felice oppure, al contrario, imposta e non voluta è un evento fondamentale - poiché irreversibile - nella vita di una donna: nel bene come nel male, la nascita di un figlio è punto di non ritorno. Come irreversibile è la morte, da questo punto di vista perfettamente speculare alla nascita.
Tra i tanti ruoli che le donne sono tenute a rispettare vi è anche quello della maternità: una donna senza figli è stata sempre e comunque considerata una “eccezione” nell’armonioso tessuto di una società ben funzionante e “normale”.
Essere normali, a mio avviso, significa essere ciò che si vuol essere, ciò che si scelto di essere: che può collimare o meno con ciò che le società, le religioni, le consuetudini considerano buono, giusto e
normale.

Linda Criminisi

Pubblicato dalla Testata Giornalistica
Grotte.info Quotidiano

su www.grotte.info il 19 aprile 2014.
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12/04/2014    

Linda Criminisi
Linda Criminisi

"Piccolo Alfabeto delle Riflessioni" di Linda Criminisi

PICCOLO ALFABETO DELLE RIFLESSIONI

di Linda Criminisi

L come Libri

Può capitare che ci siano persone che amano così tanto i libri - le loro storie, i loro personaggi - da confonderli con la realtà. O che addirittura preferiscano il piacere di leggere a quello di vivere, come accade al protagonista de L’avventura di un lettore di Italo Calvino.
Può pure capitare che un libro ridicolizzi i libri - almeno certi tipi di libri. Come nel Don Chisciotte di Cervantes, in cui al povero hidalgo spagnolo dà di volta il cervello - causa, tra le sue tante strambe avventure, della furiosa quanto inutile battaglia contro i mulini a vento - proprio perché ha letto troppi romanzi cavallereschi. Oppure c’è Madame Bovary, la creatura di Gustave Flaubert, che arriva al gesto estremo di rinunciare, con il suicidio, alla propria vita perché essa non coincide con le sue  aspettative - queste ultime alimentate soprattutto dalla lettura di  romantici romanzi d’amore.
I libri, inoltre, possono anche rivelarsi inutili e inadeguati a risolvere i problemi reali della vita, come nel caso dell’Enciclopedia del gatto Diderot ne la Storia di una Gabbianella di Luis Sepulveda.
E potrei continuare, limitandomi a citare come esempi libri molto noti tra i lettori di tutte le età.
Il bello dei libri sta anche e proprio nel fatto che essi possono criticare o prendere in giro i libri stessi, perché la ragione d’essere di un libro - al di là della storia che narra o della tesi che propugna - consiste nel farci riflettere, stimolando il pensiero critico, il pensiero creativo, il pensiero complesso.
I libri sono come gli attrezzi di una palestra, allenano la nostra mente e la irrobustiscono.
Combattono il pregiudizio e il fanatismo nei quali si casca quando non si riflette con la propria testa e non si osservano le cose - persone, idee, situazioni - da vari, e inusuali, punti di vista.
Spesso si legge per avere risposte ma i libri, se sono buoni, pongono domande. La risposta spetta a ciascuno di noi, quando l’avremo maturata dentro.
Leggendo molto, mi sono spesso chiesta se i libri servono a capire meglio la vita o se la vita serve per capire meglio i libri. Questione complessa, alla quale in tanti - scrittori, critici, filosofi - hanno dato risposte diverse.
Da parte mia penso che essi - vita e libri - vadano insieme, si illuminino reciprocamente a seconda dei momenti, indispensabili l’una agli altri e viceversa. “Si può anche vivere senza libri” ha detto  Matteo Collura ad un incontro letterario a cui ero presente, diversi anni fa - “ma non è la stessa cosa”.
E’ vero, non è la stessa cosa. Per tante ragioni.
I libri danno piacere, gioia, accendono entusiasmi e passioni; alimentano la motivazione alla scoperta; istillandoti il dubbio, persino l’inquietudine, ti tirano fuori dalla caverna dell’ignoranza conducendoti al sapere.
Che, personalmente, giudico lo scopo, o uno degli scopi più nobili della vita, capace di darle dignità e senso, in qualunque modo si decida di viverla.
Di sicuro, leggendo si vive meglio e di più, nel senso che leggere, come ha detto Daniel Pennac, dilata il tempo di vivere: chi legge ha davvero l’opportunità di vivere più vite diverse o la stessa vita con più intensità, perché il lettore abituale acquista consapevolezza, sensibilità, lungimiranza.
Se la lettura non è l’elisir di lunga vita certamente lo è di una vita migliore e tanto, tanto più bella
.

Linda Criminisi

Pubblicato dalla Testata Giornalistica
Grotte.info Quotidiano

su www.grotte.info il 12 aprile 2014.
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05/04/2014    

Linda Criminisi
Linda Criminisi

"Piccolo Alfabeto delle Riflessioni" di Linda Criminisi

PICCOLO ALFABETO DELLE RIFLESSIONI

di Linda Criminisi

I come Inutili

Non so se ricordate quella canzone di Paolo Vallesi di diversi anni fa, Le Persone Inutili, il cui bel testo era una difesa di quelle persone che vivono defilate nell’ombra, che nei rapporti sociali non mostrano i denti e i muscoli, che di fronte ad una realtà dura e dolorosa si ripiegano sui sogni e sulla nostalgia … Persone  inutili che però sanno amare - e vivere dunque - in maniera autentica, tanto da meritarsi un paradiso speciale quando non ci saranno più, a compensazione della mancanza di visibilità, onori e ammirazione pubblica che non hanno avuto in vita.
Ripenso spesso a questa canzone, anche se l’ho sentita raramente in questi anni, forse perché anch’essa era “inutile”: in fondo, cantava i perdenti.
O gli sfigati, come si dice con un lessico più aggiornato.
Essere dei “perdenti”, oggi, penso sia molto peggio di quanto non lo fosse in  passato. Al giorno d’oggi, se non aspiri al successo, al guadagno facile, a diventare famoso subito e con qualunque mezzo evidentemente ti manca qualcosa, non sai tenere il passo con i nuovi tempi che la società e la vita ti impongono.
Mi impressionano soprattutto i tanti bambini - non tutti ma davvero tanti - che, presumibilmente gasati dai velleitari entusiasmi degli adulti, affollano in orde sempre più cospicue ma indistinte gli svariati talent show che ora proliferano anche sulle piccole tv locali e i cui protagonisti - con o senza talento - sono tutti a caccia del successo planetario e della fama imperitura.
E poi, a scuola, gli insegnanti si lamentano perché i ragazzi non studiano, perché non credono più nei valori del sacrificio, della rinuncia, del duro lavoro.
Ogni attività impegnativa che non ha un ritorno immediato, concreto, visibile, da poter esibire, viene evitata dalla maggior parte dei ragazzi come la peste. Leggere un libro o scrivere il proprio diario nel tempo libero sono attività addirittura impensabili per molti giovani. Perché - apparentemente - sono attività che non portano a nulla, fini a se stesse, che non danno visibilità, né successo. E quindi inutili.
E per giunta sono attività che necessitano - e costringono - alla solitudine mentale, alla lentezza, al silenzio. Valori decisamente out - da sfigati, da persone inutili, appunto - che confliggono violentemente con un’attitudine multitasking, frenetica e rumorosa, vissuta nello sguardo degli altri, dominata dalla sovrapposizione di stimoli, impulsi e azioni e che sta irrompendo velocemente nei sistemi di senso e nella stessa indole dei giovani nativi digitali, la cui esposizione massiccia e continua al web e agli ambienti multimediali e virtuali in generale sta modificando, secondo recenti studi di neuroscienze, persino la struttura stessa del loro cervello.
Mi chiedo spesso allora se non sia in atto una vera e propria mutazione antropologica - fortemente sollecitata anche da un progresso tecnologico e mediatico spesso incontrollato - come quelle preconizzate, con i dovuti “aggiornamenti”, dai grandi romanzi distopici del secolo scorso.
Il progresso tecnologico non si può arrestare: sarebbe controproducente, e francamente stupido, opporvisi perché in esso c’è naturalmente molto, moltissimo di buono.
Ma alla deriva umana e culturale che dal progresso tecnologico può discendere sì, è un dovere morale e civile opporsi. Perché tale deriva non è né inevitabile, né ineluttabile.
Il progresso può essere “guidato” e spetta a noi adulti farlo, noi che siamo vissuti in un tempo (fortunato) in cui leggere, studiare, pensare in silenzio e solitudine erano ancora pratiche diffuse e giudicate universalmente importanti e lodevoli.
Come gli uomini-libro che chiudono le pagine di Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, anche noi abbiamo il dovere di preservare e trasmettere il senso e il valore della autenticità della vita quotidiana e dei rapporti umani, della cultura, della memoria storica e, perché no, della bellezza che, se da sola forse non può salvare il mondo, certo può renderlo migliore
.

Linda Criminisi

Pubblicato dalla Testata Giornalistica
Grotte.info Quotidiano

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29/03/2014    

Linda Criminisi
Linda Criminisi

"Piccolo Alfabeto delle Riflessioni" di Linda Criminisi

PICCOLO ALFABETO DELLE RIFLESSIONI

di Linda Criminisi

H come Handicap

Mi pare sia stato il filosofo Hume a sostenere che la bellezza è nella mente di chi la osserva. Sostituendo al concetto di bellezza quello di handicap si può dire la stessa cosa: il senso è il medesimo. Siamo noi a far sentire “handicappata” una persona con un handicap, la quale persona può benissimo viverlo con lo stesso atteggiamento con cui noi viviamo il fatto di essere bassi o di avere dei brutti capelli o una miopia che ci costringe all’uso degli occhiali.
Naturalmente molto dipende dal tipo di handicap: escludendo i casi più gravi, di quelli che, colpendo le funzioni cerebrali e cognitive di un individuo lo privano anche della consapevolezza di sé, in moltissime situazioni - per esempio nel caso di parecchi handicap fisici - in realtà è il nostro pregiudizio, la nostra diffidenza, il nostro rifiuto del diverso il vero handicap.
So che questo è un campo delicato e molto complesso: e io non sono una specialista. Ma mi guardo attorno e faccio delle riflessioni improntate al buon senso e al ragionamento, che medito tra me e me e ora condivido con voi.
L’handicap - se vogliamo poi allargare lo sguardo - è solo una delle tante forme che assume la cosiddetta diversità: diverso è anche lo straniero (peggio se è “di colore” o addirittura di etnia rom o sinti - uno zingaro in pratica), diverso è chi non professa la nostra religione (o ne non professa affatto), diverso è anche chi non la pensa come noi su questioni che riteniamo vitali e imprescindibili.
E facendo le debite differenze tra un caso e un altro, spesso la nostra risposta di fronte alla diversità è appunto di chiusura e di rifiuto, senza mai sforzarci di andare oltre tirando fuori un po’ di coraggio, un po’ di generosità e un po’ di intelligenza.
Perché - quando andiamo oltre - le persone “diverse” ci possono sorprendere molto positivamente.
E ritornando all’handicap da cui sono partita, concludo con un piccolo episodio realmente accadutomi un po’ di tempo fa. Una persona di mia conoscenza, con un handicap fisico invalidante ad una gamba che le rende estremamente difficile muoversi e camminare - per cui ella procede lentamente e con un sostegno esterno - mi ha raccontato di aver assistito in passato ad una rapina in un supermercato: nel momento in cui i ladri entravano lei, per fortuna, stava per uscire. “Appena ho capito la situazione - ha raccontato questa persona disabile tutto d’un fiato - “ me la sono subito data a gambe”.
Ebbene, tutti i presenti, a questa frase, abbiamo riso: non di ironia o di scherno, naturalmente, ma di cuore, con allegria e divertimento, perché è stato chiaro che l’handicap era nella gamba di questa persona ma non nel suo linguaggio e dunque non nella sua testa.
E abbiamo riso per un bel po’, tutti insieme, perché non solo l’allegria ma anche l’intelligenza è contagiosa.

Linda Criminisi

Pubblicato dalla Testata Giornalistica
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su www.grotte.info il 29 marzo 2014.
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22/03/2014    

Linda Criminisi
Linda Criminisi

"Piccolo Alfabeto delle Riflessioni" di Linda Criminisi

PICCOLO ALFABETO DELLE RIFLESSIONI

di Linda Criminisi

G come Gratis

Appena sappiamo che qualcosa è gratis, di solito questo qualcosa perde immediatamente valore, fascino, interesse, talvolta anche significato. E tendiamo a snobbarlo. Pensiamo alla visione di un film, di una mostra, di un museo, di un concerto. Bisogna essere dei veri intenditori, dei “cultori della materia” per non lasciarsi influenzare dalla gratuità di questo qualcosa.
Il denaro, quindi, dà valore alle cose così come glielo toglie, con la stessa mancanza di clemenza e di riflessione di un sovrano assoluto.
Però, se ci pensiamo bene, in realtà sono gratis le cose più importanti e preziose, quelle che non si possono comprare anche se siamo pieni di soldi: salute, tempo, giovinezza, amore (sincero) - solo per citare ciò che forse a tutti sta più a cuore. E ci sono anche gli spettacoli della natura: i prati in fiore, i tramonti, le notti stellate, il mare… (al di fuori delle spiagge private, naturalmente!).
Un mio professore diceva che il denaro l’hanno inventato i ricchi. Chissà, se non il denaro, almeno il concetto di denaro, di ricchezza, che molti ricchi - ma ci sono sempre le eccezioni - alimentano dentro di sé fino a farlo diventare ossessione.
Concetto di ricchezza che, secondo me, è uno di quei pensieri-tarlo di cui dovremmo imparare, con sforzo e impegno, a liberarci - insieme a quelli legati alle nostre tante “comodità” e ai nostri tanti “possedimenti” le cui sbarre invisibili ci imprigionano, condizionandoci e modificando a tal punto il nostro carattere da non riuscire, paradossalmente, a farci godere nemmeno di quello che ci viene offerto gratis.
Religione e filosofia, in fondo, lo sostengono da sempre - che la vera libertà è quella dello spirito,  purificata e privata dai desideri mondani e dai beni terreni e materiali. Per consolare i poveri, ribatte sempre qualcuno. O gli sfigati, aggiunge sempre qualcun altro.
O tutti noi, aggiungo io a questo punto, visti i tempi di crisi in cui viviamo.
Seriamente, ben venga anche la crisi se può diventare opportunità di riflessione, di “arricchimento” spirituale e di stimolo ad affrancarci da tutto quello che è stupidamente superfluo e che ci fa perdere tempo, forze fisiche ed energia mentale: i quali, appunto - fuori mercato e senza prezzo - non si possono comprare, anche a volerli pagare cari
.

Linda Criminisi

Pubblicato dalla Testata Giornalistica
Grotte.info Quotidiano

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15/03/2014    

Linda Criminisi
Linda Criminisi

"Piccolo Alfabeto delle Riflessioni" di Linda Criminisi

PICCOLO ALFABETO DELLE RIFLESSIONI

di Linda Criminisi

F come Facebook

Ci sono anch’io, su Facebook. Non sono molto pratica, in effetti, per mancanza di tempo e forse di motivazione ad imparare bene. Probabilmente mi ci applicherò meglio in futuro ma, intanto, ciò che constato è che nessuno, o quasi, sfugge al fascino dei social network e di Facebook in particolare. Anche se, a quanto pare, si sta registrando negli ultimi tempi un generale abbandono della creatura di Zuckerberg. Forse è l’inevitabile fase di declino che colpisce ogni fenomeno di massa quando arriva al suo massimo picco o forse, secondo le voci che girano nei corridoi del web, gli utenti di Facebook sono intenzionati a migrare verso qualche altra piazza virtuale in cerca di nuove, “irreali” emozioni.
Non ho lo spazio, né soprattutto gli strumenti per analizzare il fenomeno Facebook; e comunque non è questo il mio obiettivo. Quello che mi colpisce è la voglia della gente di fare “rete”, sempre e comunque, anche se una rete virtuale appunto, fatta di parole, foto, link condivisi di varia natura. E poco contatto fisico. Quest’ultimo o c’è stato prima del contatto Facebook o ci sarà probabilmente dopo, per esempio con la presenza “in persona
ai vari eventi a cui si viene invitati a partecipare.
Anche se ci si trincera dietro lo schermo di un computer, gli individui non vogliono dunque stare soli, o meglio, sentirsi soli.
Ho letto di recente una bella definizione di solitudine intesa come compagnia di se stessi, che secondo me è una gran bella compagnia a condizione però che dentro di sé ci sia un ambiente accogliente di  pace ed equilibrio. Pace ed equilibrio che sono davvero difficili da raggiungere - forse la nostra esistenza terrena è troppo breve per ottenerli. Probabilmente è per questo che non ci piace stare con noi stessi e ci aggrappiamo alle parole e alle immagini degli altri, anche di altri di cui spesso poco in realtà ci interessa.
La richiesta di “amicizia” in Facebook, spesso generalizzata e finalizzata a raccogliere il numero più alto possibile di “amici”, è rivelatrice. Così come la smania di condividere stati d’animo e situazioni che - oggettivandosi in pensieri, frasi, foto a volte francamente privi di interesse per chiunque - è solo, a mio avviso, un modo per tappare i tanti buchi neri nel nostro tessuto emozionale e intellettivo.

Facebook
è uno strumento e come tale va usato. Dipende da noi: può avere una sua positiva e concreta utilità o può solo far perdere tempo.
Tempo che è l’unica risorsa che si rischia di sprecare intanto che si valutano i pro e i contro di questo social network.
Il tempo è la cosa più preziosa e indispensabile ma anche la più volatile e sfuggente che abbiamo: nessuna tecnologia è stata finora in grado di fermarlo o di moltiplicarlo. Né, credo, ci riuscirà mai.
Il tempo passa una volta sola: sembra fermo ma solo perché va molto veloce, così veloce che ci accorgiamo di lui solo quando è andato via per non tornare più.

Linda Criminisi

Pubblicato dalla Testata Giornalistica
Grotte.info Quotidiano

su www.grotte.info il 15 marzo 2014.
Per gentile concessione dell'Autrice.
© Riproduzione riservata.
 

 

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08/03/2014    

Linda Criminisi
Linda Criminisi

"Piccolo Alfabeto delle Riflessioni" di Linda Criminisi

PICCOLO ALFABETO DELLE RIFLESSIONI

di Linda Criminisi

E come (buona) Educazione

Molte cose ormai non sono più quelle di una volta: l’aria, il cibo, i rapporti sociali e, all’interno di questi, la buona educazione. Sì perché - fatte salve le debite eccezioni che confermano la regola - la regola è, appunto, che soprattutto tra le giovanissime generazioni (che frequento tra i banchi di scuola) l’educazione è ormai un concetto fuori moda, da utilizzare solo in certe occasioni come un abito elegante ma anche estremamente scomodo.
Certamente i piccoli sono uno specchio che riflette i difetti degli adulti - e quindi il difetto, la mancanza tra gli adulti di buona educazione; ma poiché i ragazzi sono il nostro futuro, il rischio è che tale difetto dilaghi a dismisura anche nel tempo che verrà.
Chissà perché è successo tutto questo, mi chiedo spesso. I tempi cambiano e spesso portano con sé il deteriorarsi di quei valori che quando sono stati conquistati avevano un senso diverso che è stato nel frattempo equivocato, rovesciato, distrutto.
Una maggiore coscienza di sé priva di infondati timori riverenziali verso l’
autorità”, il proporre il proprio punto di vista in un dialogo intelligente tra adulto e minore si è trasformato in affermazione arrogante, da parte del più piccolo, di quello che egli ritiene giusto perché gli va bene così.
A ciò si aggiunga l’interiorizzazione di modelli comportamentali, con relativo linguaggio scurrile e aggressivo, provenienti dai peggiori, e purtroppo più diffusi, programmi televisivi - in cui il rispetto dell’altro e delle regole sono davvero un optional. Da non sottovalutare, poi, l’uso smodato e spesso non supervisionato dagli adulti del web, in cui i ragazzi non di rado navigano a vista verso lidi poco adatti alla loro età.
Inoltre, un diffuso benessere economico (almeno finora) ha fatto sì che i ragazzi abbiano tutto e subito, disimparando a coltivare il desiderio e la pazienza, con ciò che vi aleggiava intorno: aspettative, speranze, fantasie, sogni che davano agli occhi dell’adolescente quella luce che solo a questa età si può avere.
Infine, su tutto questo campeggia, spesso, anche l’assenza dei genitori. Assenza fisica, comprensibile e giustificabile quando determinata dall’impegno lavorativo; assenza psicologica assai meno giustificabile, da cui discende la conseguenza che molti genitori abbiano smesso di dare ai figli regole - sensate e condivise naturalmente - da rispettare; al contempo, però, questi stessi genitori sono sempre pronti a difendere a spada tratta le ragioni dei figli - figli che in realtà molti di essi, frettolosi e superficiali, non sanno nemmeno ascoltare perché non li conoscono realmente.
La soluzione? Recuperare le buone abitudini e i buoni sentimenti, perdendoci anche un po’ di tempo, così come facciamo quando andiamo a caccia di cibi biologici e cerchiamo di cucinarli nel modo più sano.
Ed è importante. Perché il passo tra la buona educazione e i buoni sentimenti, tra cui la (trascurata) gentilezza, è molto breve. E quando, incontrando una persona - giovane o meno giovane che sia - quest’ultima accompagna un gesto o un saluto nei tuoi confronti con un sorriso gentile, a me quel sorriso fa l’effetto di un raggio di sole che sbuca tra le nuvole: mi illumina la giornata e mi fa sentire bene
.

Linda Criminisi

Pubblicato dalla Testata Giornalistica
Grotte.info Quotidiano

su www.grotte.info l'8 marzo 2014.
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01/03/2014    

Linda Criminisi
Linda Criminisi

"Piccolo Alfabeto delle Riflessioni" di Linda Criminisi

PICCOLO ALFABETO DELLE RIFLESSIONI

di Linda Criminisi

D come Donne

Cosa si può ancora dire sulla condizione delle donne che non sia stato già detto e ridetto tantissime volte? Repetita juvant, tuttavia. E più le cose si ripetono più diventano comprensibili e familiari, fino a mutarsi in vere e proprie “acquisizioni automatiche” del nostro patrimonio di costruzioni mentali e categorie culturali attraverso le quali classifichiamo istintivamente persone e situazioni.
Essere donna varia a seconda del posto in cui ci si ritrova a vivere; pertanto, per parlarne in poco spazio, si può procedere solo per grandi falcate e ampie generalizzazioni. Ma ci provo lo stesso, anche perché ci sono, a mio avviso, dei tratti comuni che legano tutte le donne in una sorta di sorellanza atavica e apparentemente immutabile.
Accantoniamo - almeno per il momento - le donne che, prive di tutto, stentano a vivere nei paesi sottosviluppati e le donne che, prive di fondamentali diritti, si sforzano di vivere dignitosamente in paesi apparentemente ma non realmente sviluppati (come quelli dominati dai regimi islamici, per esempio).
Sulle donne, anche su quelle che vivono in società evolute dal punto di vista economico, sociale e culturale - a cui anch’io appartengo - gravano una serie di compiti “naturali” ed “istituzionali” - legati all’accudimento dei familiari e alla gestione del ménage domestico - che però si portano dietro un inevitabile carico di stereotipi e pregiudizi.
Stereotipi e pregiudizi - forgiati nei secoli dal dominante mondo maschile - che hanno attecchito con forza e caparbietà non solo negli uomini, come è comprensibile, ma anche - ed è questa la cosa più grave - nelle stesse donne, assumendo una duplice forma: o di senso di colpa per le proprie scelte di vita che, sotterraneamente e quotidianamente, striscia accanto alla stragrande maggioranza delle donne  oppure  di riprovazione - talvolta ostile - delle stesse donne verso quelle altre donne che tentano, seppur tra mille difficoltà, di “sfuggire” al ruolo loro imposto, vivendo nel modo che ritengono migliore per sé.
Perché è così, purtroppo: spesso le peggiori nemiche delle donne sono le donne stesse. Nemiche inconsapevoli, il più delle volte. Naturalmente molto dipende da fattori come età o grado di istruzione e cultura ma consuetudini di vita e abiti mentali diffusi e radicati - soprattutto in società tradizionaliste come quelle meridionali - costituiscono pareti di cristallo, anche tra le stesse donne, dure da scalfire.
E ci si può anche rifugiare a Loshui, nella provincia cinese di Yunnan, che, a quanto pare, è l’ultima oasi di matriarcato rimasta al mondo: la situazione non cambierebbe. Perché l’unico luogo dove ognuno di noi può vivere bene è dentro se stessi.
Ed è su questo luogo che bisogna agire.
Ben vengano le lodevoli e necessarie iniziative di sensibilizzazione di vario tipo sulle problematiche del mondo femminile; accanto a queste, tuttavia, è necessaria una quotidiana e incessante “rivoluzione culturale” da portare avanti nelle coscienze di uomini e donne: modificando i nostri comportamenti, le nostre abitudini mentali, perfino il nostro linguaggio. Anche andando controcorrente, se necessario.
E ancora una volta questa rivoluzione può partire - o meglio proseguire - dalle donne. Le quali, insieme alla capacità di generare la vita, devono pure avere la capacità  di renderla migliore per tutti quanti
.

Linda Criminisi

Pubblicato dalla Testata Giornalistica
Grotte.info Quotidiano

su www.grotte.info il 1° marzo 2014.
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22/02/2014    

Linda Criminisi
Linda Criminisi

"Piccolo Alfabeto delle Riflessioni" di Linda Criminisi

PICCOLO ALFABETO DELLE RIFLESSIONI

di Linda Criminisi

C come Cultura

Con la cultura non si mangia” disse Giulio Tremonti, ministro dell’Economia qualche anno fa, con una frase ormai divenuta famosa. Famosa e proverbiale, direi, dato che viene citata ogniqualvolta ci si voglia riferire alle (frequenti) mancanze di attenzione, se non addirittura ai palesi atti di disprezzo, nei confronti della cultura, dettati - non da ignoranza o da emotività, naturalmente - ma da precisa volontà politica e istituzionale. Disprezzo che si esprime concretamente nei  tagli dei fondi a sostegno di attività culturali di vario tipo, nel non utilizzo o nello spreco dei pur esigui finanziamenti erogati, con tali finalità, a livello europeo e che si palesa tutte le volte in cui la cultura non viene “trasformata” in risorsa capace di generare occupazione - in qualcosa quindi che “fa mangiare” (onestamente).
Questa linea di condotta ai “livelli alti” non può non avere ricadute ai “livelli più bassi”, andando a rinforzare un atteggiamento sociale ed individuale - forse da sempre esistente nella massa della popolazione - di rifiuto, talvolta di disprezzo appunto, nei confronti della cultura - nella sua accezione più ampia - e non di rado anche nei confronti di chi la pratica.
Ma mentre in passato tale atteggiamento “popolare” di rifiuto era più dettato dalla diffidenza - non priva però di una certa soggezione che pareva riconoscere “il valore del nemico” - adesso mi pare che esso sia divenuto più rozzo, determinato da totale chiusura al dialogo, da mancanza di consapevolezza e di idonei strumenti di valutazione critica. E il tutto inasprito dalle necessità economiche che, si sa, in tempi di crisi dura e reale come quelli che stiamo vivendo, abbrutiscono gli animi.
Il declino della scuola ha sicuramente un peso determinante in questo generale disprezzo di ciò che è avvertito come “culturale”. Non solo le giovani generazioni ignorano molti contenuti (pensiamo alle riduzioni delle ore di lezione e alle “modifiche” nei programmi di discipline come la storia, per esempio) ma esse stanno perdendo le capacità di analisi, di approfondimento e di critica, in pratica la capacità - e l’abitudine - a ragionare, a riflettere, ad avventurarsi nell’esercizio del  pensiero complesso.
La cultura, quindi, diventa un “nemico” che in realtà non si conosce, che si rifiuta senza comprenderlo e proprio perché non lo si comprende. E se non si (ri)conosce il nemico che si ha di fronte si può stare certi che la battaglia è già persa in partenza
.

Linda Criminisi

Pubblicato dalla Testata Giornalistica
Grotte.info Quotidiano

su www.grotte.info il 22 febbraio 2014.
Per gentile concessione dell'Autrice.
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15/02/2014    

Linda Criminisi
Linda Criminisi

"Piccolo Alfabeto delle Riflessioni" di Linda Criminisi

PICCOLO ALFABETO DELLE RIFLESSIONI

di Linda Criminisi

B come Bontà

Anche il concetto di bontà, come quello di amore, è ampio e difficile da definire.
E come l’amore, anche la bontà spesso trae in inganno e non è quello che sembra.
Chissà, forse questo vale per tutti i sentimenti che, in quanto generati dalla psiche umana, sono per loro intrinseca natura ambigui e contraddittori. Ma la bontà, che non è solo sentimento ma anche una predisposizione caratteriale e un atto della volontà, a me sembra più sfuggente e fallace di altri moti dell’animo umano.
La bontà, nella sua autentica essenza, è indubbiamente un nobile sentimento e tutti vorremmo essere veramente buoni. Ma questa convinzione, e questo desiderio, varia a seconda del posto in cui ti trovi.
Nella terra in cui vivo, in Sicilia, per esempio, nei confronti della bontà (e degli affini generosità, onestà, eccetera) si nutre una certa diffidenza, se non una sotterranea avversione; e i veri buoni non godono proprio di grande stima.
Essere buoni in maniera disinteressata - dalle nostre parti - è poco credibile. Si ritiene impossibile che una persona possa fare del bene - per gli altri o per una causa - senza un secondo fine.
Magari questo tornaconto non è visibile “a occhio nudo” - nel senso che è ben celato - oppure esso si rivelerà a lungo termine. Ma è solo questione di tempo e di occasioni. Prima o poi l’autentica natura del “buono” verrà fuori e l’impostura smascherata.
Ma se, dopo tanto tempo - magari alla fine della vita di una persona - si viene a scoprire che dal bene fatto essa non ha ricavato alcun beneficio, anzi forse ne ha avuto addirittura dei danni, allora, in questo caso, tale persona potrà essere finalmente considerata buona?
Certo che no, perché le persone così non sono buone: sono semplicemente stupide. Di una stupidità senza rimedio.

Viene da pensare allora che la bontà, da noi, semplicemente non esista.
Naturalmente esiste, così come esistono gli uomini buoni. Ma l’una e gli altri si devono muovere e sopravvivere tra mille difficoltà, schiacciate da un’altra “qualità” dell’animo umano che è la spirtizza (questo sì, concetto difficile da definire a chi non è “delle nostre parti”).
Gli sperti usano la bontà per proprio tornaconto e quando riescono ad ottenere ciò a cui puntano, sono doppiamente sperti: pertanto ancora più meritevoli di ammirazione.
Nell’immaginario collettivo siciliano solo i “buoni eccezionali”, quelli che si sono guadagnati una patente di autorevolezza e credibilità dopo una vita eroica (e che non sono morti, nel frattempo, a causa della loro bontà) meritano di essere considerati tali.
Tipi alla Madre Teresa di Calcutta o alla Nelson Mandela, per intenderci.
I quali però, se sono arrivati dove sono arrivati e se hanno fatto quello che hanno fatto, sicuramente - e ve lo dice una siciliana - un po’ sperti dovevano esserlo pure loro
.

Linda Criminisi

Pubblicato dalla Testata Giornalistica
Grotte.info Quotidiano

su www.grotte.info il 15 febbraio 2014.
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08/02/2014    

"Piccolo Alfabeto delle Riflessioni" di Linda Criminisi
 

Premessa.
Il “Piccolo Alfabeto delle Riflessioni” proporrà, per ciascuna lettera dell’alfabeto e con cadenza settimanale, pensieri, osservazioni, quesiti - riflessioni appunto - che quotidianamente girano fuori e dentro la mia testa…
Senza alcuna pretesa di “scientificità”, alcun intento didattico o alcuna finalità morale ma per il semplice piacere di condividerle con chi vorrà leggerle, sperando di suscitare nei lettori altrettante riflessioni, in un dialogo silenzioso e tutto interiore.

 

Linda Criminisi
Linda Criminisi


PICCOLO ALFABETO DELLE RIFLESSIONI

di Linda Criminisi

A come Amore

Che l’amore sia tutto / è tutto ciò che sappiamo dell’amore”.
Recitano così i versi iniziali di una famosa poesia dell’altrettanto nota e amata poetessa americana Emily Dickinson, vissuta tra il 1830 e il 1886. Questi versi, spesso banalizzati dal disinvolto uso in contesti che nulla hanno a che fare con la poesia, contengono certamente una grande verità, pienamente condivisibile: l’amore è importante, addirittura fondamentale, s’insinua in ogni piega della nostra esistenza, investe la nostra umana vicenda nella sua totalità. Per amore, si sa, si fanno grandi gesti e grandi sciocchezze.

L’amore è un sentimento - collante di svariate tipologie di legame: quello tra due esseri umani - uomo e donna o individui dello stesso sesso - quello tra genitori e figli, quello tra uomo e Dio, per citare i più importanti. Di solito, però, quando si parla d’amore, il pensiero va immediatamente a quello di coppia, intorno al quale sono stati creati innumerevoli capolavori della letteratura e del teatro ma anche tanta fiction narrativa e televisiva insulsa e fallace - e quindi pericolosa. Forse non a caso perché l’amore, appunto per la sua natura di sentimento ampio, multiforme, contraddittorio, diventa il ricettacolo di tante cose vere e fasulle, di quel “tutto” di cui parlava Dickinson.

L’amore di coppia si differenzia nettamente da quello incondizionato e poco problematico - in apparenza, almeno - che è l’amore tra genitori e figli e si differenzia pure da quello immateriale, ideale, assoluto - almeno nelle intenzioni - che lega l’uomo a Dio. Le prime due forme d’amore, a mio avviso, sono più “lineari” e durature perché mancano di quella complessa dialettica di confronto - incessante e paritario - tra due persone che crescono e cambiano, fuori e dentro il rapporto di coppia.

L’amore tra genitori e figli è prevalentemente asimmetrico nel senso che, di solito, sono i genitori ad amare di più i figli, a volte fin da prima che essi nascano quando sono ardentemente desiderati; i quali figli, a loro volta, ricambieranno l’amore ricevuto riversandolo con la stessa intensità e dedizione sui propri figli (e non sui propri genitori).

Anche l’amore tra uomo e Dio, simile all’amore tra un genitore e un figlio, non è paritario ma “sbilanciato” poiché è Dio che ama di più, perdonando continuamente le “mancanze” nel sentimento di un uomo imperfetto per natura.

L’amore di coppia, invece, si regge sull’equilibrio delicato e precario tra opposte spinte, sanando continuamente, per garantirsi l’esistenza, le asimmetrie di passione, fedeltà, egoismo, lealtà che si possono determinare tra i partners. Nel vero amore l’asimmetria e l’unilateralità non sono previste, così come non sono previste la sopraffazione e l’abuso. E tuttavia l’amore di coppia si sostanzia di talmente tante pulsioni eterogenee e contrastanti da poter continuare ad esistere pur diventando il contrario di se stesso, la negazione di se stesso,  sfociando, nei casi estremi, nella violenza.
Ma questa è un’altra storia, argomento di una prossima riflessione.

Chiudo, invece, la presente con un invito alla lettura dei restanti versi della breve lirica (la 1765) di Emily Dickinson e delle altre sue meravigliose poesie, d’amore e non
.

Linda Criminisi

THAT LOVE IS ALL THERE IS (N° 1765)
That Love is all there is,
Is all we know of Love;
It is enough, the freight should be
Proportioned to the groove.

Emily Dickinson

CHE SIA L'AMORE TUTTO (N° 1765)

Che l’Amore sia tutto
È tutto ciò che sappiamo dell’Amore.
Tanto basta, il carico
Deve essere proporzionato al solco
.

Pubblicato dalla Testata Giornalistica

Grotte.info Quotidiano

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Per gentile concessione dell'Autrice.
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